In Italia si sente spesso parlare di “cervelli in fuga” per definire il fenomeno che porta i migliori talenti del nostro Paese a realizzarsi all’estero. Noi abbiamo deciso di parlarne con due ricercatori che si sono laureati in Biotecnologie all’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano.
Si chiamano Marco ed Elisabetta, due ragazzi come tanti che hanno deciso di studiare quest’affascinante materia dopo essersi appassionati alle scienze al Liceo. Ora sono due ricercatori in poli scientifici molto importanti: lui è rimasto al San Raffaele mentre lei è emigrata all’estero, più precisamente in Germania.
Avete svolto i vostri studi al San Raffele, che è considerato un centro di eccellenza sia a livello italiano che europeo. Quali sono secondo voi le differenze tra la vostra università e gli altri atenei italiani?
E: Dal punto di vista universitario è in competizione con molte altre università italiane, anche se è molto famoso per la Facoltà di Medicina. Per quanto riguarda il corso di laurea in biotecnologie è davvero molto innovativo rispetto agli altri centri, soprattutto per quanto riguarda l’indirizzo medico, visto che in pochissimi altri atenei ci sono corsi simili. Rispetto alle altre università, per chi come noi vuole fare ricerca medica, presenta il vantaggio di avere l’Ospedale nello stesso polo dove ci sono i vari indirizzi universitari con un campus molto grande. Anche a livello economico, essendo un’università privata, ci sono molti più fondi per i laboratori che permettono di svolgere molte più lezioni pratiche e poiché si tratta di un istituto di eccellenza per la ricerca anche i docenti sono estremamente qualificati. Dal punto di vista della ricerca è sicuramente superiore agli altri centri.
M: Oltre ai vantaggi indicati da Elisabetta, bisogna anche dire che essendo un’università privata le classi sono formate da un numero di studenti contenuto ed è più facile interagire con i professori in modo diretto. A mio modo di vedere il vero punto di forza del San Raffaele è quello di costruirsi in proprio futuro in “casa”: volendo utilizzare una metafora calcistica, un po’ come se fosse una squadra di calcio con le proprie giovanili, il San Raffaele mira a produrre attraverso i propri corsi di laurea i ricercatori che poi lavoreranno nei laboratori. Questo ha modificato anche l’approccio didattico, che non è improntato sulla mera nozionistica e sullo studio dei testi, ma piuttosto sulle vere abilità che verranno poi richieste al momento di passare al mondo della ricerca vero e proprio. In questo modo alla fine del ciclo di studi gli studenti sono già pronti per lavorare in laboratorio e sono consapevoli di cosa voglia dire essere uno scienziato.
Si tratta quindi di una questione prettamente economica o di modello?
M: L’aspetto economico è sicuramente rilevante: i fondi statali non sono propriamente ingenti e spesso vengono gestiti male. Nelle università pubbliche si tende a non ottimizzare i fondi, mentre in una privata si sta più attenti alla gestione del denaro, visto che lo spreco equivale a una perdita diretta. Ovviamente il vantaggio del San Raffaele è quello di offrire delle strutture all’avanguardia rispetto a quelle del panorama italiano, che spingo i vari scienziati a sceglierla come sede dei propri laboratori e a portare con sé i fondi personali vinti grazie a progetti presentati e meritevoli di sovvenzioni a livello europeo.
E: Il modello del San Raffaele si è rivelato vincente in Italia, dove purtroppo non ci sono grandi possibilità lavorative per i ricercatori. Se dovessimo pensare a un “futuro migliore” in questo settore, sarebbe chiaramente meglio se ci fossero più centri di ricerca dove poter cercare di potare avanti i propri studi in maniera da incentivare maggiormente le università ad accaparrarsi i ricercatori migliori. Il modello ideale sarebbe quello in cui ogni laboratorio cerca di assumere i ricercatori migliori: al San Raffaele al momento tendono a tenere i propri perché sono sicuri che nel panorama italiano sono sicuramente quelli che hanno avuto la formazione migliore. Chi viene assunto al San Raffaele passa per un normale concorso al quale tutti i laureati di tutte gli atenei possono partecipare e non ci sono punti bonus per aver svolto il proprio ciclo di studi all’interno della struttura: semplicemente chi ha svolto gli studi al San Raffaele risulta essere più pronto e preparato per lavorare nella ricerca.

Quali progetti state seguendo attualmente?
E: Entrambi studiamo immunologia: io studio lo sviluppo dei linfociti T nel timo.
M: Io invece studio la leucemia linfocitica cronica, ovvero un cancro che colpisce il sistema immunitario e le cellule B. Con approcci molti innovativi, come per esempio l’imaging intravitale, cerco di capire quali sono le cause che permettono a questa leucemia di crearsi e svilupparsi.
Dopo la laurea specialistica, avete diviso i vostri percorsi professionali. Com’è avvenuta questa scelta?
E: Io avevo già deciso di andar via dal San Raffaele, anche se non volevo necessariamente andare all’estero. In Italia purtroppo non ci sono tantissime opportunità, anche se ci sono un paio d’istituti validi sempre a Milano, però in questo tipo di carriera si va spesso avanti seguendo quello che ti piace. Tra i progetti che erano disponibili al San Raffaele non c’era nessuno che mi interessasse particolarmente, quindi mi sono presa 6 mesi per decidere e ho trovato un progetto che mi interessava a Monaco.
M: Io invece ho avuto la fortuna di entrare in un laboratorio molto importante già nel corso della specialistica e una volta completati gli studi ho avuto la possibilità di rimanere e continuare a seguire il progetto sul quale stavo già lavorando durante la mia tesi di laurea. Inoltre continuando a lavorare in questo laboratorio con gli scienziati che attualmente lo dirigono avrò probabilmente la possibilità di andare negli Stati Uniti dopo aver conseguito il dottorato.

Quali sono le principali differenze tra i laboratori del San Raffaele e quelli dove lavora Elisabetta in Germania?
E: Diciamo che è un po’ difficile definire le differenze in senso generale, poiché in queste strutture ci sono una moltitudine di laboratori diversi e non tutti presentano le stesse caratteristiche a livello di attrezzature e innovazione. Per quella che è la mia esperienza al San Raffaele ero in un laboratorio un po’ più vecchio a livello strutturale, anche se a livello di attrezzature era comunque molto completo e comunque c’erano a disposizione tutti i laboratori vicini per l’utilizzo dei macchinari. Anche a Monaco la struttura è un po’ antiquata, ma stanno realizzando un polo simile al San Raffaele che dovrebbe avvicinare tutti i laboratori e quello sarà invece molto all’avanguardia.
M: Io lavoro in un laboratorio abbastanza nuovo, visto che il mio capo è arrivato relativamente da poco e quindi hanno provveduto a rinnovare il laboratorio in funzione delle ricerche che dovevano essere portate avanti. Dipende molto dalla quantità dei fondi e dall’importanza degli scienziati: il livello è eterogeneo, ci sono dei micro ambienti di incredibile ricchezza scientifica ed altri più nella norma, anche se dipende tutto dalla meritocrazia. I laboratori che ho visto a Monaco sono un pochino meno avanzati di quelli del San Raffaele ma quando completeranno il polo che stanno progettando, diventeranno uno dei centri più importanti d’Europa. L’importante quando si fa ricerca è la multidisciplinarietà: avere dei centri che si occupano di una singola disciplina non porta gli stessi vantaggi di avere un polo nel quale sono concentrati laboratori che si occupano di tematiche differenti. C’è bisogno di interazione.
A livello di mentalità invece, avete notato differenze tra i colleghi italiani e quelli che invece lavorano in Germania?
E: Al San Raffaele ci sono tanti scienziati italiani mentre nel laboratorio di Monaco c’è una dimensione più internazionale, con colleghi che vengono da diverse parti del mondo come per esempio Giappone e Cina. Lavorando in questo laboratorio, pur essendo più piccolo, ho avuto la possibilità di vedere comunque degli approcci differenti dal mio, proprio in virtù del fatto che i colleghi venivano da altri continenti. La mentalità scientifica dipende molto dalle persone singole e in generale bisogna essere predisposti alla collaborazione con le altre persone.
M: Nella realtà dei fatti però è un ambiente competitivo , poiché l’obbiettivo degli scienziati nella fase iniziale della carriera è quella di “pubblicare”, ovvero veder pubblicati i risultati delle proprie ricerche su importanti riviste specialistiche del settore. È importante riuscire a pubblicare come primo nome, poiché esiste una gerarchia per la quale il primo nome a comparire sulla pubblicazione aumenta il prestigio e l’importanza dello scienziato. Anche l’ultimo nome è importante: al contrario del primo, che si occupa della realizzazione pratica del progetto, l’ultimo nome riguarda il capo del progetto, ovvero colui che ha sovvenzionato la ricerca e si tratta solitamente del capo del laboratorio. Dunque la competizione con i colleghi e alta, poiché tutti vogliono pubblicare come primo nome per il progetto che stanno seguendo. Anche se questo meccanismo dovrebbe far scattare una competizione positiva, talvolta può portare anche a situazione deleterie che possono inficiare o rallentare i risultati della ricerca.
Dal punto di vista umano, come vivete questa distanza?

E: Per fortuna non è così distante, con qualche ora di volo riusciamo a vederci spesso. In ogni caso anche lavorando nella stessa città sarebbe stato difficile vedersi molto perché è un lavoro in cui si lavora veramente tanto e si passano moltissime ore il laboratorio.
M: Era comunque una cosa della quale eravamo coscienti, visto che il dottorato è un vero e proprio lavoro. Inoltre lavorando su un progetto proprio non si smette quasi mai di pensare al lavoro, poiché anche quando si è a casa si continua a riflettere sugli esperimenti eseguiti in laboratorio. Non è il classico lavoro “nine to five”: la distanza ovviamente si sente ma anche se fossimo tutti e due nella stessa città non potremmo vederci molto di più.
Come vi vedete tra cinque anni?
M: Il mio sogno come scienziato è quello di andare in America: ad oggi per diventare capo di un laboratorio serve un’esperienza internazionale in paesi forti e attualmente nel mio campo, l’immunologia, l’America è il più forte. Spero di ripercorrere la carriera del mio attuale capo, ovvero andare in America per il post doc e poi tornare in Italia per avere un mio laboratorio. C’è però da dire che negli Stati Uniti c’è una condizione lavorativa molto migliore, con aspetti burocratici molto meno impegnativi dei nostri: per fare un esempio, per avere lo stesso reagente, in America ci vuole un giorno mentre in Italia ci può volere anche un mese a causa di tutti i documenti che bisogna compilare e presentare. Il problema dell’Italia non è la fuga dei cervelli: ben venga andare all’estero per fare esperienza ma poi bisogna trovare il modo di farli tornare.
E: In questo lavoro bisogna spostarsi e un esperienza fuori dall’Europa bisogna farla. Se poi Marco vuole andare per lungo tempo in America (ride) proverò ad andarci anche io. La difficoltà è proprio che non si sa mai per quanto tempo bisognerà spostarsi da un posto ad un altro, quindi si vede strada facendo.
Qual è il vostro sogno scientifico nel cassetto?
M: Vincere il premio Nobel, tentare di essere ricordato per aver modificato qualcosa nella storia dell’umanità.
E: Fare una scoperta importante nel mio campo, magari sul funzionamento del sistema immunitario.
Ma è vero che gli scienziati sono un po’ sfigati? Per intenderci “nerd” alla Big Bang Theory
E: Assolutamente no! Non siamo tutti “nerd” come spesso ci rappresentano. Anche se come in tutti gli ambienti qualcuno c’è!
M: Sfatiamo il mito del ricercatore sfigato! La maggior parte della gente che c’è in laboratorio è quella che trovi la sera in giro a bere una birra o a ballare in discoteca. Anche ai congressi ci si diverte parecchio!